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Stupefacenti e recidiva reiterata, la Corte Costituzionale ci ripensa
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Articolo di Carlo Alberto Zaina
19 novembre 2012 12:41
 
Il giudice delle leggi è stato chiamato a risolvere il dubbio di costituzionalità dell’art. 69 comma 4° c.p., sollevato dal Tribunale di Torino, in relazione alla previsione dell’impossibilità di dichiarare prevalente l’attenuante prevista dal comma 5° dell’art. 73 dpr 309/90 sulla recidiva reiterata, regolata dal comma 4° dell’art. 99 c.p. .
La pronunzia di incostituzionalità della norma, per quanto assolutamente condivisibile ed auspicabile, appare sorprendente, sol che si pensi alla circostanza che la Corte Costituzionale, già in precedenza, investita di sospetti di illegittimità costituzionale, aveva offerto soluzioni compromissorie e, comunque, certamente orientate alla conservazione della disposizione normativa in oggetto.  
In una fase immediatamente successiva all’entrata in vigore della legge denominata ex-Cirielli, il giudice delle leggi fu compulsato sulla scorta del dubbio di incostituzionalità del meccanismo di limitato bilanciamento previsto dall’art. 69 comma 4 c.p..
Con la sentenza 4-14 giugno 2007, n. 192 (Presidente Bile – Relatore Flick)[1] il giudice delle leggi, infatti, pur rigettando plurime questioni di legittimità costituzionale involgenti l'impianto normativo sortito dalla promulgazione della L. 251/05, offrì una lettura di tale norma – e sopratutto dell'art. 99, comma 4, c.p. - che si pose come alternativa, nuova, contingentemente utile a superare i dubbi sollevati dai giudici di merito, senza però, affrontare il tema nella sua massima estensione.
Fu questo un ulteriore autorevole avvallo in relazione al giudizio di facoltatività che doveva permeare l'istituto della recidiva reiterata di cui al co. 4° dell'art. 99 c.p., ponendo i crismi della differenziazione di siffatto istituto rispetto a quelli contenuto nel successivo comma 5° del medesimo articolo.
Per paradosso, il sigillo giurisprudenziale della Corte Costituzionale venne apposto con una sentenza che respingeva in toto tutte le questioni di incostituzionalità che da ogni latitudine del nostro paese, la magistratura di merito aveva devoluto al prudente giudizio della Consulta.
Successivamente la Corte ebbe nuovamente modo di soffermarsi sul medesimo tema, con la ordinanza n. 171 del 29 maggio 2009[2], la quale “dichiarava la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, 81, quarto comma, e 99, quinto comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione[3] e dalla Corte d'appello di Bari”, affrontando, anche in questa occasione, la questione pure, (e soprattutto) in relazione alla medesima tematica, trattata con la sentenza in commento.
Il nucleo centrale del dubbio interpretativo che ha sempre assillato i giudici di merito e di legittimità remittenti si è incentrato sul rapporto intercorrente, in modo specifico, fra l’art. 99 comma 4° c.c. e la circostanza attenuante ad effetto speciale di cui al comma 5° dell’art. 73  dpr 309/90 (“lieve entità”).
Con tale ulteriore pronunzia, i giudici costituzionali ritennero di potere riproporre un accento di decisività, ai fini del giudizio di reiezione della questione di costituzionalità eccepita, sul regime di “facoltatività” della recidiva di cui all’art. 99 comma 4° c.p..
Nell’occasione vennero, in modo particolare, ribaditi due aspetti che hanno condizionato l’applicazione processuale della circostanza aggravante in questione, da parte del giudice.
Essa, infatti, venne ritenuta apparentemente  legittima:
·         solo quando il nuovo reato appaia concretamente sintomatico – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti – della maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo”.
Il nuovo reato, quindi, va valutato in raccordo e collegamento con quelli precedentemente commessi, onde inferire un giudizio complessivo che si soffermi sia sulla persistenza e reiterazione di “un atteggiamento di rivolta del soggetto nei confronti dell’ordinamento[4] (colpevolezza), sia sull’allarme sociale e la capacità criminale che il singolo riesce ad esprimere con la propria condotta illecita;
·         solo quando (il magistrato n.d.a.) ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire sulla pena: mentre, in caso contrario, non vi sarà alcun giudizio di comparazione, atto ad elidere le attenuanti.
Se il percorso valutativo che precede, si dovesse concludere, con un giudizio, che ravvisi la sussistenza delle condizioni di pertinente applicazione al caso concreto della recidiva, a carico dell’imputato, apparirà evidente e naturale l’operatività della circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99 c.p., con la naturale conseguenza della vigenza del divieto di prevalenza delle attenuanti (fra le quali quella dell’art. 73/5°), al più equivalenti.
La soluzione adottata, con la evocata decisione (come, d’altronde, con la precedente del 2007), apparve, pur nella sua elementare ineccepibilità procedurale, come espressione di una fondamentale elusione della complessiva tematica.
Vale a dire, che il giudice delle leggi, facendo uso di un argomento esclusivamente procedimentale, a carattere logico-interpretativo, come quello della differenza ontologica e giuridica fra la previsione (di facoltatività) del comma 4° e quella (di obbligatorietà) del comma 5° dell’art. 99 c.p., offriva, nell’occasione, certamente una soluzione sistematica della questione, che, peraltro, non si discostava da uno spiccato accento di provvisorietà ed interinalità.
Senza volere, affatto, assumere un atteggiamento minimamente irrispettoso nei confronti della Corte, non si può non osservare come la soluzione prospettata (e propugnata) all’epoca, parve, ai più, un mero contingente commodus discessus, piuttosto che un’adeguata risposta ad un problema (non solo giuridico) avvertito dolorosamente presso i giudici di merito ed anche di legittimità, all’indomani dell’introduzione dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251.
A distanza di oltre tre anni dalla ultima citata ordinanza di reiezione della questione, pur nella sostanziale riproposizione di analoghi (se non, addirittura, medesimi) profili di conflitto (viene, infatti, riproposto il contrasto sia con l’art. 3, che con l’art. 27 Cost.), integrati dall’ulteriore sospetto di violazione anche dell’art. 25 comma terzo Cost., la Corte Costituzionale - melius re perpensa - offre una lettura, invece, diametralmente opposta a quella precedentemente emersa, recependo, tra l’altro, una serie di incipit proposti dal giudice remittente, (alcuni, a ben guardare, per nulla inediti).
Tre sono i profili affrontati ed involgono sia l’art. 3, che l’art. 25, che l’art. 27 della Costituzione.
Tra questi, il più eclatante rilievo di irragionevolezza che la Corte Costituzionale mostra di cogliere e censurare, si palesa nell’effetto di gravissima ed inammissibile penalizzazione sanzionatoria, che il divieto di giudizio di prevalenza della circostanza attenuante ad effetto speciale, di cui all’art. 73 comma 5° dpr 309/90, rispetto alla recidiva ex art. 99/4° c.p., provoca ledendo così, in pari tempo, sia l’art. 3, che l’art. 25 Cost. .
Si deve rilevare, infatti, che fattispecie di reato, assolutamente differenti tra loro (sia in relazione alla tipologia ed alla qualità della condotte previste e punite, che in relazione all’effettivo spessore dell’offensività che le stesse esprimono), in virtù del divieto in questione sancito dall’art. 69 comma 4 c.p., vengono, invece, indebitamente equiparate quoad poenam, solo in virtù di “un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato”.
La Corte coglie [e si fa portavoce (finalmente)] l’inaccettabilità di un condizionamento esclusivamente di carattere soggettivo-personale di una sanzione  penale afferente ad un fatto, la cui “soggettiva-oggettività”, invece, viene così disattesa.
Il riconoscere sussistente ed applicabile, ad uno specifico caso, la circostanza attenuante della “lieve entità”, costituisce operazione ermeneutica che consegue necessariamente alla delibazione di una serie di criteri, espressamente indicati dall’art. 73 comma 5° dpr 309/90.
Se, dunque, i  mezzi, la modalità o le circostanze dell'azione ovvero la qualità e quantità delle sostanze, assumono – ad avviso del legislatore - una valenza fondamentale ai fini  dell’applicabilità dell’attenuante, venendosi, così, a configurare una situazione che si accredita come di minima offensività penale rispetto all’ordinaria azione illecita (di cui all’art. 73 co. 1 ed 1 bis), con la ulteriore diretta conseguenza di comportare un trattamento sanzionatorio, indubbiamente, di maggiore temperamento, non pare affatto tollerabile che una mera condizione strettamente personale (e facoltativamente addebitabile) possa alterare e stravolgere, in radice, quella che può risultare la qualificazione giuridica adeguata al caso specifico.
Verrebbe, così, vanificato il principio costituzionale di offensività, di cui all’art. 25 Cost. che, come perspicuamente osservato dal Tribunale remittente, implica “… «la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi, senza che la considerazione della mera pericolosità dell’agente possa legittimamente avere rilievo esclusivo»…”.
Di particolare importanza appare, inoltre, la considerazione che la L. 251/2005 ha introdotto un criterio – quella del diniego del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto alla circostanza aggravante ex art. 99/4° c.p. – che, regolato dall’art. 69/4° c.p., impone un aumento di pena, in capo all’imputato recidivo, assolutamente spropositato, rispetto al regime anteriore, governato dall’art. 6 d.l. 99/1974.
Non possiamo dimenticare, poi, preliminarmente a qualsiasi altra considerazione, la specifica peculiarità del comma 5° dell’art. 73.
La disposizione, infatti, individua inequivocabilmente (seppur sotto la controversa specie della circostanza di reato) una situazione di illiceità specifica, peraltro, di limitato pericolo e, dunque, affatto confondibile con l’ipotesi tratteggiata nella norma ordinaria, relativa al reato base di cui ai commi 1 ed 1 bis del medesimo articolo.
La novella del 2005, ha, infatti, comportato la sorprendente ed opinabile conseguenza che un fatto-reato, che il giudice stesso ha, quindi, espressamente riconosciuto e qualificato come “lieve”, possa, venire, comunque, equiparato esclusivamente quoad poenam, ad uno assai più grave, attraverso l’adozione di una forma  di predeterminata equazione legislativa, abnormemente ed illogicamente automatica, che privilegia valutazione di natura soggettiva riguardanti l’autore del reato (precedenti penali ad es.), e, in pari tempo, disattende i normali criteri di valutazione oggettiva del fatto-reato.
Si viene, così, a provocare un’alterazione “..degli equilibri costituzionalmente imposti nella strutturazione della responsabilità penale…” e si verifica, altresì, un totale svuotamento di significato processuale e sostanziale del riconoscimento della circostanza attenuante in parola.
L’inammissibilità della previsione dell’art. 69 comma 4° c.p. e la sua incompatibilità rispetto all’art. 3 Cost., è apparsa ancor più evidente, laddove la sua applicazione, in ipotesi di concorso di più persone nel reato, ha comportato, nella quotidianità forense, evidentissime (ed ingiustificate) differenze in punto di pena applicata in concreto, fra imputati che avessero serbato il medesimo comportamento , ai quali fosse stato contestato il medesimo addebito ed ai quali fosse stata riconosciuta, all’esito del giudizio, la concessione dell’attenuante dell’ipotesi lieve.
Se è, infatti, seppur vero, che possa non porsi sul medesimo piano sanzionatorio, la persona incensurata, rispetto alla persona già gravata da precedenti condanne, atteso il dovere del giudice di addivenire ad una individualizzazione della pena, tenendo conto di tutti quegli elementi – di fatto e di diritto – che vengono a dispiegare effetto sul risultato finale, è, peraltro, altrettanto, vero, come sostiene la Corte che sarebbe inaccettabile che “…..la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità….”.
 
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La Corte, inoltre trae, poi, ulteriore argomento a favore della propria decisione, richiamando le note differenze che intercorrono fra la disposizione dell’art. 74 comma 1 e quella dell’art. 74 comma 6° dpr 309/90, in materia di associazione per delinquere.
Le due ipotesi, notoriamente, investono profili fattuali differenti e comportano conseguenze in punto di individuazione della pena prevista assai diverse e per nulla confondibili, atteso che quella prevista dal comma 6° costituisce, nel disegno del legislatore, specifico sodalizio associativo, finalizzato per la commissione di fatti descritti dell’art. 73 comma 5°.
L’occasione, fornita da questa passaggio dell’ordinanza, favorisce una brevissima riflessione proprio sulla natura di circostanza attenuante del comma 5° dell’art. 73 dpr 309/90[5] e sui limiti che tale classificazione ha sempre comportato in sede.
La scelta di inserire l’istituto in oggetto, nel novero della categoria giuridica delle circostanze di reato[6], a scapito della tesi che lo identificava come forma di reato autonomo.
Ritiene chi scrive che una seria riforma del sistema legislativo che governa la materia degli stupefacenti, dovrebbe, però, investire, anche e soprattutto, la questione delle condotte illecite di lieve entità, le quali non dovrebbero essere ricondotte alla tipologia delle circostanze, ma dovrebbero, invece, venire sussunte tassativamente in una specifica ipotesi di reato.
Non è necessario indulgere in una elencazione di argomentazioni di diritto per comprendere che la opportuna ragionevolezza di una simile scelta.
Essa permetterebbe, infatti, di conferire maggiore certezza ed in equivocità all’applicazione concreta dell’istituto.
Verrebbe, così, superato l’ampio insieme degli equivoci e dei dubbi che dottrina e giurisprudenza hanno nutrito negli anni e di cui l’intervento del giudice delle leggi – di cui al presente commento – è indubbio esempio.
Non è, infatti, ammissibile che la reale, concreta e quotidiana attuazione di una fattispecie giuridica, che – come il comma 5 dell’art. 73 dpr 309/90 - presenti caratteri di assoluta novità, specificità ed autonomia, (rispetto ad altre cui si correla indubbiamente), in forza di peculiari requisiti valutativi espressamente previsti e predeterminati normativamente, sia pesantemente condizionata dalla scelta di venire confinata nel limbo delle circostanze.
Il persistere dell’inquadramento sistematico che vuole la lieve entità come circostanza attenuante ad effetto speciale, suscita il pericolo di una vanificazione del  principale fine che la norma persegue.
Esso consiste nel fatto di rendere adeguata e proporzionata al reale livello di minima offensività della condotta, una ineluttabile prospettiva sanzionatoria, attraverso l’inflizione di una pena che, nei suoi limiti edittali, si distingua da quella prevista per fatti che, seppur analoghi per taluni aspetti materiali e psicologici, appaiono del tutto differenti, proprio per il più alto grado di allarme sociale che essi suscitano.
 


[1] CORTE COSTITUZIONALE , sentenza 14.06.2007 n° 192
Il giudice applica l’aumento di pena previsto per la recidiva reiterata quando ritiene il nuovo episodio delittuoso concretamente significativo sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo.
Allorché la recidiva reiterata concorra con una o più attenuanti, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento unicamente quando ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire, di per sé, sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede; mentre, in caso contrario, non vi sarà luogo ad alcun giudizio di comparazione: rimanendo con ciò esclusa la censurata elisione automatica delle circostanze attenuanti.
[2] ORDINANZA N. 171 ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Francesco                 AMIRANTE                  Presidente
- Ugo                         DE SIERVO                     Giudice
- Paolo                       MADDALENA               "
- Alfio                       FINOCCHIARO             "
- Alfonso                   QUARANTA                  "
- Franco                     GALLO                         "
- Luigi                       MAZZELLA                           "
- Gaetano                   SILVESTRI                   "
- Sabino                     CASSESE                      "
- Maria Rita                SAULLE                       "
- Giuseppe                  TESAURO                     "
- Paolo Maria              NAPOLITANO              "
- Giuseppe                  FRIGO                           "
- Alessandro               CRISCUOLO                 "
- Paolo                       GROSSI                        "
 
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, 81, quarto comma, e 99, quinto comma, del codice penale, promossi dalla Corte d'appello di Bari e dalla Corte di cassazione con ordinanze del 26 giugno 2008 e del 14 ottobre 2007, iscritte ai nn. 374 e 440 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2008 e n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2009.
      Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
      udito nella camera di consiglio del 6 maggio 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.
      Ritenuto che, con ordinanza depositata il 14 ottobre 2007 (r.o. n. 440 del 2008), la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui vieta il giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti sull'aggravante della recidiva reiterata, prevista dall'art. 99, quarto comma, del medesimo codice;
      che la Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Cagliari avverso la sentenza del 10 ottobre 2006, con cui il Tribunale di Cagliari aveva applicato all'imputato, su richiesta delle parti, la pena di mesi undici di reclusione ed euro 3.000 di multa per il delitto continuato di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), previo riconoscimento della prevalenza dell'attenuante del fatto di lieve entità, di cui al comma 5 del citato art. 73, sulla contestata aggravante della recidiva reiterata;
      che il ricorrente aveva dedotto che la sentenza era stata emessa in violazione del divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, sancito dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione): con la conseguenza che all'imputato era stata applicata una pena inferiore al minimo edittale (sei anni di reclusione, oltre la multa, pari alla pena base del delitto contestato), minimo che non avrebbe neppure consentito di accedere al patteggiamento, in quanto superiore al limite previsto dall'art. 444, comma 1-bis, del codice di procedura penale;
    che, ciò premesso, il giudice a quo reputa che la disposizione censurata, impedendo di irrogare ai recidivi reiterati pene inferiori ai minimi edittali, violi il principio di ragionevolezza: essa, infatti, per un verso, imporrebbe di applicare lo stesso trattamento sanzionatorio al reato attenuato e a quello non attenuato, e dunque di punire allo stesso modo violazioni di diversa gravità; per altro verso, farebbe sì che vengano puniti in maniera diversa fatti identici, a seconda che l'autore sia o meno un recidivo reiterato;
    che, in tal modo, il legislatore avrebbe introdotto un irrazionale «automatismo sanzionatorio», operando una indiscriminata omologazione di tutti i recidivi reiterati, di cui presumerebbe in via assoluta la pericolosità, a prescindere dalla natura dei reati oggetto delle precedenti condanne e di quello per cui si procede, nonché del tempo trascorso rispetto ai delitti già giudicati: onde non verrebbe assicurata l'uguaglianza delle pene sotto il profilo della proporzione alle personali responsabilità;
    che la norma censurata violerebbe, altresì, l'art. 27, terzo comma, Cost., in quanto – ancorando l'aggravamento del trattamento sanzionatorio alla mera condizione di recidivo reiterato – priverebbe il giudice della possibilità di adeguare la pena al caso concreto, costringendolo ad applicare pene sproporzionate rispetto all'entità del fatto: con conseguente compromissione tanto della finalità rieducativa della pena – la quale non potrebbe esplicarsi ove la pena inflitta venga avvertita come ingiusta – quanto delle finalità di prevenzione generale e speciale della medesima;
    che la questione sarebbe altresì rilevante nel giudizio a quo, incidendo non soltanto sulla pena applicabile, ma anche sulla possibilità di accesso dell'imputato al patteggiamento, stante il limite di cui all'art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen.;
    che, con ordinanza del 26 giugno 2008 (r.o. n. 374 del 2008), la Corte d'appello di Bari ha sollevato, in riferimento all'art. 27, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, 99, quinto comma, e 81, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui «prevedono – rispettivamente – il divieto di prevalenza delle riconosciute circostanze attenuanti rispetto alla recidiva di cui all'art. 99, comma V, C.P., l'obbligatorietà – in tal caso – di un aumento di pena predeterminato, nonché l'aumento di pena, in misura non inferiore di un terzo della pena stabilita per il reato più grave»;
    che il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciarsi sull'appello proposto da due persone imputate «dei reati» di cui all'art. 629, primo e secondo comma, cod. pen. e di altro delitto, con l'aggravante della recidiva reiterata (specifica, quanto ad uno degli imputati, specifica ed infraquinquennale, quanto all'altro);
    che, in primo grado, gli appellanti erano stati dichiarati colpevoli dei reati loro ascritti e condannati – previo giudizio di equivalenza dell'attenuante di cui all'art. 62, numero 6), cod. pen. rispetto alle aggravanti contestate, e operata la diminuzione connessa alla scelta del rito abbreviato – alle pene di anni cinque e mesi quattro di reclusione ed euro 900 di multa, quanto al primo imputato, e di anni quattro, mesi cinque e giorni dieci di reclusione ed euro 600 di multa, quanto al secondo;
    che, tanto premesso, il rimettente assume che gli «automatismi previsti in tema di recidiva reiterata specifica nel quinquennio in termini di determinazione della pena» violerebbero l'art. 27, terzo comma, Cost., in quanto priverebbero il giudice della facoltà di adeguare il trattamento sanzionatorio all'effettiva gravità del reato commesso, vulnerando, così, la finalità rieducativa della pena;
    che la questione sarebbe rilevante, avendo gli imputati censurato, con il loro gravame, anche l'eccessività della pena irrogata in applicazione dei «rigidi automatismi» previsti dalle norme sottoposte a scrutinio;
      che in entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate.
      Considerato che le due ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, attinenti, in parte, alla medesima norma, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;
      che, quanto alla questione sollevata dalla Corte di cassazione, questa Corte si è già più volte pronunciata su identiche questioni, dichiarandone dapprima l'inammissibilità, e poi la manifesta inammissibilità, per non avere i giudici rimettenti verificato la praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il superamento di detti dubbi, o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 257, n. 193, n. 90 e n. 33 del 2008, n. 409 del 2007);
      che, scrutinando similari censure, secondo cui il nuovo testo dell'art. 69, quarto comma, del codice penale avrebbe introdotto un irrazionale «automatismo sanzionatorio» correlato ad una presunzione assoluta di pericolosità sociale del recidivo reiterato, questa Corte ha in particolare rilevato come tali censure poggino sul presupposto – implicito e indimostrato – che, a seguito delle modifiche operate dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria in ogni caso;
      che tale lettura non è, tuttavia, l'unica prospettabile: potendosi, al contrario, ritenere che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria esclusivamente nei casi previsti dall'art. 99, quinto comma, cod. pen. (rispetto ai quali soltanto tale regime è espressamente contemplato), e cioè ove concernente uno dei delitti indicati dall'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale (il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore di particolare gravità e allarme sociale);
      che, nel caso specie, si procede, in effetti, per un delitto in materia di stupefacenti non compreso nell'elenco di cui alla citata disposizione del codice di rito, né, d'altra parte, l'ordinanza di rimessione specifica a quali delitti attengano le precedenti condanne riportate dall'imputato;
      che, nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è possibile altresì ritenere che venga meno anche l'«automatismo» censurato, in termini di indefettibile “neutralizzazione” della diminuzione di pena prevista per le attenuanti concorrenti;
    che, alla stregua dei criteri di usuale adozione in tema di recidiva facoltativa, il giudice applicherà, difatti, l'aumento di pena per la recidiva reiterata solo quando il nuovo reato appaia concretamente sintomatico – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti – della maggiore colpevolezza e pericolosità sociale del reo;
    che, correlativamente, ove la recidiva reiterata concorra con attenuanti, il giudice procederà al giudizio di bilanciamento – soggetto al regime limitativo stabilito dalla norma denunciata – solo quando ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea ad influire sulla pena: mentre, in caso contrario, non vi sarà alcun giudizio di comparazione, atto ad elidere le attenuanti;
    che tale interpretazione risulta, peraltro, attualmente predominante nella stessa giurisprudenza di legittimità;
    che la questione di costituzionalità in esame va dichiarata, pertanto, anch'essa manifestamente inammissibile;
    che, quanto alla questione sollevata dalla Corte d'appello di Bari, il giudice a quo sottopone a scrutinio – oltre all'art. 69, quarto comma, cod. pen. – anche altre due norme, oggetto dell'intervento novellistico attuato dalla legge n. 251 del 2005: vale a dire l'art. 99, quinto comma, cod. pen., nella parte in cui stabilisce un aumento di pena obbligatorio e predeterminato per la recidiva, e l'art. 81, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede un aumento minimo di pena per il concorso formale di reati e la continuazione (pari a un terzo della pena stabilita per il reato più grave) nei confronti dei recidivi reiterati;
    che, come emerge dalla formulazione del petitum, il rimettente censura dette disposizioni limitatamente ai casi in cui, ai sensi del citato art. 99, quinto comma, cod. pen., l'aumento di pena per la recidiva – e, segnatamente, per la recidiva reiterata specifica infraquinquennale (contestata ad uno degli imputati nel giudizio a quo ed alla quale è puntualmente riferita la doglianza) – è divenuto obbligatorio;
    che, nel sollevare la questione, il giudice a quo non si pone, tuttavia, l'ulteriore problema interpretativo – pure ripetutamente evidenziato da questa Corte nelle pronunce in precedenza citate – di stabilire quale reato debba rientrare nell'elenco di cui all'art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., affinché divenga operante il regime di obbligatorietà: se, cioè, il delitto oggetto della precedente condanna, ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo, indifferentemente l'uno o l'altro, o addirittura entrambi (soluzioni tutte alternativamente prospettate dagli interpreti, senza che sul punto possa dirsi allo stato sussistente un orientamento consolidato);
    che il rimettente dà, in effetti, per scontato che l'obbligatorietà scatti allorché – come nel caso di specie (in cui si procede, tra l'altro, per il delitto di estorsione aggravata, richiamato dal numero 2 dell'art. 407, comma 2, lettera a, cod. proc. pen.) – appartenga all'elenco il nuovo reato, senza perscrutare affatto le alternative ermeneutiche, e, segnatamente, la possibilità di ritenere che, a detti fini, debbano rientrare nell'elenco anche il reato o i reati oggetto di precedente condanna;
    che l'eventuale adesione a quest'ultima soluzione interpretativa verrebbe ad inficiare tanto la motivazione sulla rilevanza che quella sulla non manifesta infondatezza della questione;
    che, sotto il primo profilo, difatti, il rimettente non precisa a quali delitti si riferiscano le precedenti condanne riportate dagli imputati: se, cioè, a delitti anch'essi inclusi nell'elenco di cui alla norma del codice di rito, ovvero ad esso estranei;
    che, sotto il secondo profilo, nei limiti in cui si escluda l'operatività del regime di obbligatorietà di cui all'art. 99, quinto comma, cod. pen., è possibile ritenere che venga meno, oltre al denunciato «automatismo» di cui all'art. 69, quarto comma, cod. pen., anche quello di cui all'art. 81, quarto comma, cod. pen.: giacché – come evidenziato da questa Corte – anche l'operatività di quest'ultima norma appare logicamente legata al fatto che il giudice abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la pena per i reati in continuazione (ordinanza n. 193 del 2008);
    che a ciò va aggiunto che la motivazione dell'ordinanza di rimessione in ordine all'asserita violazione dell'unico parametro costituzionale evocato (la finalità rieducativa della pena, di cui all'art. 27, terzo comma, Cost.), si presenta comunque inadeguata, esaurendosi nell'assiomatica affermazione per cui le norme impugnate impedirebbero al giudice di adeguare la pena alla gravità del reato commesso, senza che ne vengano affatto indicate le ragioni; indicazione da ritenere, per contro, necessaria, una volta che – come è evidente – nessuna delle norme denunciate rende, di per sé, la pena fissa nel suo complesso, e non dunque non modulabile in rapporto alle peculiarità del caso concreto;
    che anche sotto questo profilo, dunque, in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 e n. 15 del 2009), la questione va dichiarata manifestamente inammissibile: e ciò a prescindere dall'ulteriore considerazione che la questione di costituzionalità relativa all'art. 99, quinto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede un aumento di pena «predeterminato» – ossia fisso, anziché variabile tra un minimo e un massimo – è irrilevante nel giudizio a quo, giacché, anche in caso di applicazione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., detto aumento resta comunque neutralizzato dal giudizio di equivalenza con l'attenuante concorrente già operato dal giudice di primo grado e non modificabile in peius, in assenza di un appello del pubblico ministero sul punto.
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
    riuniti i giudizi,
   dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, 81, quarto comma, e 99, quinto comma, del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione e dalla Corte d'appello di Bari con le ordinanze indicate in epigrafe.
    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 maggio 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2009.
[3] Si legge nella citata ordinanza n. 171/2009 che la “Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso proposto dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Cagliari avverso la sentenza del 10 ottobre 2006, con cui il Tribunale di Cagliari aveva applicato all'imputato, su richiesta delle parti, la pena di mesi undici di reclusione ed euro 3.000 di multa per il delitto continuato di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), previo riconoscimento della prevalenza dell'attenuante del fatto di lieve entità, di cui al comma 5 del citato art. 73, sulla contestata aggravante della recidiva reiterata”
[4] Santamaria, voce Colpevolezza in Enciclopedia del Diritto, vol. VII, 1960, pp.646 ss.
[5] Cfr. ex plurimis Corte di Appello di Palermo, Sez. III, 25 agosto 2009, Bi.An., “… l’ipotesi del fatto di lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, del D.P.R. n. 309 del 1990, configura una circostanza attenuante a effetto speciale e non un titolo autonomo di reato, essendo correlata a elementi che non mutano, nell’obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi commi dello stesso articolo, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva. L’attenuante in parola potrà essere riconosciuta soltanto in ipotesi di minima offensività, deducibile sia dal dato quantitativo che qualitativo e dagli altri parametri richiamati dalla disposizione in esame”.
[6]   In dottrina, va sottolineato che AMBROSINI , ha osservato come la prova della classificabilità dell'art. 73, comma 5, D.P.R. 309/90, nel novero delle attenuanti, derivi dalla coincidenza fra i dati circostanziati complementari, contenuti nella norma, e taluni dei parametri dettati dall’art. 133 c.p., con specifico rifermento al comma 1, n. 1 , in relazione alla possibilità del giudice di esercitare la discrezionalità di cui all’art. 132 c.p. in punto di pena.

 
 
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