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Juan Pablo Escobar. Un percorso stupefacente
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Articolo di Redazione
30 settembre 2017 11:25
 
 Riguardando la fiction Narcos, anche i non-ispanici avranno notato il modo tutto particolare con cui gli attori pronunciano il “papà” spagnolo. Nel turbinio di violenza e insulti, la parola assurge talvolta e resta sempre calda ed affettuosa. Vi si intende l’amore -Pablo Escobar avra’ pure messo a ferro e fuoco il proprio Paese- per suo figlio, Juan Pablo che restera’ sempre “mi papà”. E’ cosi’, qualunque cosa accada. Lui stesso e’ legato a suo padre per sempre, in un mix di rispetto e risentimento e, piu’ gli anni passano, meno si allontana da lui.
Il quarantenne e’ sulla terrazza della sua casa editrice, un bell’immobile vicino agli Champ-Elysées, che beve della Perrier, tutto vestito di nero, camicia ampia per nascondere le sue rotondita’. Gradevole e ben lucidato, e’ venuto per presentare la biografia che ha scritto per suo padre, per “ristabilire la verita’”, contro la campagna dei poster della terza stagione di Netflix sui narcotrafficanti: “C’e’ ovunque il volto di mio padre nonostante parli solo del cartello di Cali’”. Escobar veniva da Medellin, niente da dire, ed e’ stato ucciso il 2 dicembre 1993 e, in televisione, alla fine della stagione precedente. Nella serie, il bandito viene ucciso su un tetto dall’esercito e dalla CIA. Suo figlio ha un’altra versione. E’ convinto che “papà”, colpito dai proiettili, ha preferito beffare la sua morte suicidandosi. Non vi insiste troppo, sa bene che il successo di Narcos2 contribuisce a quello del suo libro, pubblicato poco tempo fa in spagnolo, e venduto in 250 mila esemplari. Quando gli si domanda se non stia approfittando del nome di suo padre per guadagnare soldi, Juan Pablo non esita un istante: “Sicuramente. Ma io sono suo figlio, chi ne ha diritto piu’ di me? Non Netflix o Hollywood”. Qualche anno fa aveva gia’ lanciato una linea di T-shirt con l’immagine di suo padre circondata da slogan per la pace pur di vendere il tutto.
Il nome Escobar vuol dire qualcosa. L’insieme della famiglia se lo disputa, cosi’ come suo zio Roberto, che reclama la somma folle di un miliardo di dollari da Netflix. I due non sono in buoni rapporti. Quando e’ morto il patriarca, il resto della famiglia ha abbandonato Juan Pablo, sua sorella e sua madre nelle mani dei cartelli che li hanno spogliati -dice lui- di tutti i loro soldi. Quando il figlio rifiuto' di capitalizzare sul suo nome, Roberto fece apparire un clone nei media che si accaparro' per un certo periodo di tempo della sua identita’. Presso gli Escobar e’ successo qualcosa come nel libro Buendia di Gabriel Garcia Marquez. Gli stessi nomi si sovrappongono e si mescolano al punto che non si sa piu’ chi e’ chi. Tutti saranno condannati a cento anni di solitudine. Durante gli anni, Juan Pablo ha cercato di venirne fuori da se stesso, diventando architetto di interni a Buenos Aires, in Argentina, dove sua madre, sua sorella e lui hanno trovato rifugio e dove ancora vivono. Il nostro aveva cambiato d’indentita’ e si faceva chiamare Sebastian Marroquin. In esilio, hanno dovuto imparare a guadagnarsi la vita. Da piccolo, el nino non era mai andato da solo al McDonald’s o in un negozio. Ma il passato non svanisce. Stanco della guerra, Juan Pablo ha finito per mettere la sua carriera di designer fra parentesi. L’autore fa spallucce: “Chi avrebbe voluto lavorare con un Escobar? Con le stesse proposte che potevo fare io, i clienti si rivolgevano sempre a qulacun altro”. Chiunque esso sia, l’uomo ha piu’ la testa di un architetto che di un narco che da’ ordini, mentre e’ nel suo ristorante mangiando “bandejas paisas” (riso, fagiolini, maiale fritto, uova, banane fritte). Il confronto gli avrebbe dato fastidio. Lo avrebbe trovato ingiusto e avrebbe avuto ragione. Juan Pablo Escobar sembra aver fatto di tutto per non mettersi sulla strada di Pablo. In parte per non morire, e in parte perche’ lui si vede come “un uomo pacifico”. Dopo diversi anni, l’autore predica la buona parola in America latina, e milita per la riconciliazione, felice dell’attuale processo di pace in Colombia. E’ stato un po’ meno tempo a Parigi per andare ad incontrare papa Francesco, a Cartaghena, con il figlio di una delle vittime di suo padre.
Dalla sua nascita, nel 1977, alla morte di suo padre nel 1993, Juan Pablo e’ vissuto circondato di spacciatori e uomini armati, in un ambiente di violenza e di fughe permanenti, passando da palazzi a nascondigli mitici, dalla giunga alla prigione. Rimontando minuziosamente il corso dei suoi ricordi, racconta la sua versione della storia, moltiplicando gli aneddoti incredibili.
L’Hacienda Napoles, gigantesca proprieta’ dove Pablo si era insediato, a prezzo d’oro, animali esotici, elefanti, giraffe, rari pappagalli. La prigione dove il trafficante aveva accettato di essere incarcerato aveva tutti i comfort, e dove suo figlio andava a trovarlo nascosto in un furgone con delle prostitute, per stare col babbo tutto il fine settimana. Fino alla fuga della sua famiglia in un Mozambico in guerra. “Nessun bambino al mondo e’ stato piu’ circondato di droghe che non io. Ma ho avuto di avere la possibilita’ di un padre che mi ha parlato dei pericoli delle stesse ed io non le ho mai toccate, a parte una volta, a 26 anni, con della marijuana”. Il nostro sostiene una regolamentazione delle sostanze illegali: “Non si puo’ vincere la guerra. Escobar o Guzman saranno sempre rimpiazzati. Le droghe sono di fatto legalizzate. A Parigi o Bogota’, se si vuole una qualunque sostanza, la si puo’ acquistare nel giro di trenta minuti”.
Se Juan Pablo non omette piu’ nei suoi racconti i crimini di suo padre, le bombe, le esecuzioni, le torture, comunque aumenta le recriminazioni contro gli altri narcotrafficanti e i politici e i militari corrotti degli anni 90. “Mio ‘papà’ sognava ugualmente lo Stato. Diceva: io sono il solo a riconoscere di essere un bandito mentre loro fanno lo stesso in nome della legge”. Gli si chiede se lui e’ d’accordo, esita un istante: “Posso capire perche’ vedeva le cose cosi’, ma niente giustifica mai la violenza”. Juan Pablo non rinnega l’amore che Pablo portava verso la sua famiglia. “Ci e’ sempre stato fedele anche se non era facile vivere con lui. A suo modo, ci rispettava. Mio padre aveva diversi amanti, ma non ha mai fatto figli fuori del matrimonio. Faceva molta attenzione, e mai mia madre (ndr - che aveva 13 anni quando ha incontrato il criminale di 24 anni) non l’ha sorpreso a letto con un’altra donna”. Lui non ne ha conosciuta che una, Andrea, artista e pubblicitaria, incontrata durante l’adolescenza e che l’ha sempre seguito. Avevano un piccolo ragazzo di 4 anni, sospira Juan Pablo: “Se tutto il mondo mi chiudeva le porte, che cosa mi restava? Il traffico. So come funziona. Ma io non voglio che alla mia morte, mio figlio sia obbligato di andare a negoziare la sua sopravvivenza da dei cartelli, come ho dovuto fare io”.
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24 febbraio 1977: nascita a Medellin (Colombia)
2 dicembre 1993: morte di Pablo Escobar
2009: appare nel documentario “I peccati di mio padre”
Settembre 2017: uscita del libro “Pablo Escobar, mio padre” (Hugo & Cie).

(articolo di Quentin Girard, pubblicato sul quotidiano Libération del 30/09/2017)
 
 
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