La Cannabis può migliorare le funzioni del cervello? La
conferma da uno studio dell’Università di Harvard
Poiché vengono condotti sempre più studi sulla cannabis,
inesorabilmente crollano altri falsi stereotipi. Le
politiche (ed i politici) anti-cannabis che si oppongono
alla legalizzazione hanno sempre meno argomenti.
Un nuovo studio della Harvard University, pubblicato in
Frontiers in Farmacologia, ha dimostrato che la cannabis
può migliorare la funzionalità cerebrale tra i
pazienti.
Lo studio intitolato ” Splendore nell’erba” Uno studio
pilota sull’impatto della marijuana medica sulla funzione
esecutiva è il primo studio del suo genere e i suoi
risultati sono promettenti.
Effetto della cannabis sulla funzione del cervello
I ricercatori hanno osservato che, nonostante molti studi,
questi sono i primi in cui le funzioni del cervello sono
state testate prima e dopo le prove.
Lo studio ha scoperto che i divieti sulla cannabis non sono
coerenti con i risultati di molti studi che indicano che la
cannabis abbia valore medico. Inoltre notano che, anche se
la cannabis ha effetti negativi sul cervello in via di
sviluppo, la maggior parte dei pazienti la usa in età
adulta, ed il cervello non è più influenzato dalla
cannabis.
I ricercatori della Harvard University hanno deciso di
indagare se la cannabis possa migliorare la funzione del
cervello. A tale scopo si è scelto un ceppo medico, che nel
suo profilo chimico ha livelli bilanciati di THC e CBD, con
prevalenza del secondo cannabinoide.
Tra questi, si ritiene che alcuni cannabinoidi quali
cannabigerolo e tetraidrocannabivarina abbiano proprietà
neurogene e neuroprotettive, il che significa che sono
coinvolti nella creazione di nuove cellule cerebrali e
prevenire la degenerazione.
Metodi di prova
Lo studio è stato condotto per un periodo di dodici mesi,
in cui 32 partecipanti sono stati sottoposti a test regolari
tre, sei e dodici mesi prima di ricevere la cannabis ad uso
medico.
Per qualificare lo studio, i partecipanti non dovrebbero
essere stati mai a contatto con la cannabis, o 10 anni dopo
l’ultimo utilizzo. La condizione per partecipare allo
studio era quella di avere una malattia diagnosticata come
ansia, depressione o insonnia.
I pazienti sono stati sottoposti a una serie di test quali
il test Stroop Color Word , che mostra una parola come Rosso
, ma deve pronunciare il colore associato alla parola, in
questo caso il verde.
Come può la cannabis influenzare la funzione del
cervello?
Dopo tre mesi di uso medico della cannabis, hanno mostrato
una maggiore capacità di eseguire tutti i test per
accuratezza e velocità, suggerendo che la cannabis abbia
migliorato la funzione del cervello.
I ricercatori hanno riconosciuto che 32 partecipanti erano
un piccolo numero e la ricerca ha impedito la
somministrazione di un placebo, poiché gli stessi pazienti
hanno acquisito la cannabis dai medici. Questo è il primo
studio del suo genere.
“Come investigatore clinico, non mi interessa la ricerca
cattiva o buona, mi interessa solo la verità. Ciò che i
nostri pazienti e gli utenti ricreativi hanno il potere di
conoscere. La gente usa marijuana, il nostro compito è
quello di sviluppare le forme migliori e più sicure del
loro consumo. “ha dichiarato Staci Gruber , direttore
della ricerca sulla cannabis per la ricerca neurologica
(MIND). .
I risultati di questi studi sono promettenti e i ricercatori
continueranno a studiare gli effetti della cannabis sulla
funzione del cervello per confermare i risultati
iniziali.
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5 giugno 2018 8:19 - mariagrazia3828
Non mi pare che i dati, almeno in Italia, indichino nessuna
“emergenza” droga (decessi droga correlati, consumi di
alcol pro capite, patologie correlate sono in calo da anni,
mentre l’età media dei consumatori è in costante aumento
e quella dei “veri” tossicomani ancora di più) ma, per
essere poco diplomatica, piuttosto una “emergenza
servizi”, con relativi posti di lavoro, che produce un
continua ricerca di altre “emergenze”. Come in altri
campi della medicina (disease mongering) si esaltano
presunti “consumi a rischio” e si scoprono “nuove
dipendenze” incuranti del fatto che, dopo quasi 30 anni
dall’obbligo di valutare l’efficacia dei
“trattamenti”, comunità comprese, questo non sia stato
fatto o sia stato fatto senza gruppo di controllo (cioè non
sia stato fatto). La prova è che mentre quando ancora
circolava la credenza dell’immancabile efficacia delle
“cure” l’opinione pubblica si mobilitava per
l’apertura e contro la chiusura di servizi e
“comunità”. Oggi tutto avviene nella più totale
indifferenza dei supposti bisognosi. Con ciò non voglio
certo dire che non servano professionisti che sappiano
occuparsi di questo genere di problemi. Tanto è vero che
stanno proliferando quelli (bravi) che lo fanno privatamente
così come proliferano i gruppi di auto-aiuto. Ma forse non
servono i metodi di selezione (si fa per dire) utilizzati
dagli attuali servizi pubblici e privati accreditati. Dove,
tanto per dirne una, dopo l’abolizione della disciplina
“medicina delle farmacotossicodipendenze” (durata lo
spazio di un mattino e che avrebbe incentivato giovani
medici ad investire sul settore invece che considerarlo un
ripiego prima o dopo miglior sorte) non è nemmeno stabilita
la disciplina per i medici. Non parliamo degli
psicoterapeuti che, spesso, pretendono che il paziente si
adatti alla loro non raramente obsoleta formazione invece
del contrario. O delle comunità organizzate come “collegi
per adulti” gestiti da operatori spesso sottopagati e
quando non di fatto obbligati a fare i soci–lavoratori e
quindi anche loro in attesa di miglior sorte. Quanto al
supposto anacronismo della legge vigente, magari sarebbe il
caso di iniziare ad applicarla prima di giudicarla. A
cominciare dal diritto all’anonimato (= il paziente non
dà il nome a nessuno) e alla libera scelta del luogo di
cura (= il medesimo va dove gli pare senza
“autorizzazioni” di sorta). Chi l’ha fatto ed aveva le
competenze (a riprova che non solo, ai sensi dell’art. 120
del DPR 309/1990, si deve ma si può anche fare) aveva liste
d’attesa e utenti da mezza Italia. Prima che le solite
incompetenti ed autoritarie Regioni non completassero
l’opera di stravolgimento incoerente della legge
nazionale. E meno male per noi tutti che ai tempi
dell’AIDS non era ancora stato modificato il Titolo V
della Costituzione.