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Alcool, cannabis, cocaina... le dipendenze durante il lavoro. Un approccio francese
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Articolo di Redazione
30 novembre 2017 14:03
 
 Sul lavoro, ci sono le droghe che Francesco (nome di fantasia) somministra ai suoi pazienti, e ci sono quelle che lui stesso prende. I sonniferi per “per non perdere un minuto non dormendo”, iniezioni di carboidrati “per una giornata senza pausa pasto”, e la cocaina per, questa volta, “non dormire durante le dodici ore di guardia”. L’infermiere anestesista ci tiene a fare il suo punto della situazione: “Non sono un caso isolato”.
Nelle risposte che il quotidiano Le Monde ha chiesto per avere testimonianze sul ricorso a sostanze legali e illegali durante il lavoro, i professionisti del settore che hanno risposto sono numerosi. C’e’, per esempio, questa stagista che “faceva il solco nella farmacia dell’ospedale”. E quel medico “che ha avuto un malessere sul posto di lavoro perche’ era fatto di Diprivan”, un potente anestetico, il cui uso e’ riservato al personale medico.
Ma la sanita’ non e’ il solo settore toccato. Anche ben lungi. Il ricorso a prodotti psicoattivi riguarda “tutti i mestieri”, come rileva Marie Pezé, dottoressa in psicologia e psichiatria, autrice di “Burn-out pour les nuits” (First 2017). Quest’ultima, che lamenta come nessuno studio di rilievo sia stato fatto sui comportamenti da dipendenza durante il lavoro, ha constatato che i lavoratori dipendenti di alcuni settori hanno fatto ricorso a prodotti psicoattivi piu’ che altri: si riferisce a uffici e lavori pubblici, agricoltura e pesca, ristorazione e sicurezza.
L’alcool al lavoro, prima sostanza consumata
Alcool, cannabis, cocaina, sonniferi, ansiolitici… cosa spinge i lavoratori dipendenti a consumare tali sostanze? Alcune “abitudini” collegate all’ambiente in cui viviamo, possono aver influito. Julien (sempre nome di fantasia), per esempio, cuoco di 34 anni, che per dieci anni ha fatto diversi lavori stagionali, d’inverno in alcune stazione sciistiche, l’estate in stabilimenti balneari, spiega di essere “diventato alcolizzato in un tempo minore di quanto basta per dirlo” in un contesto dove “i padroni preferiscono pagarti in bicchieri piuttosto che le tue ore di straordinario”.
L’alcool, sicuramente, viene bevuto in ambito privato. “Le persone che consumano delle sostanze durante il lavoro conoscono quello specifico prodotto gia’ da prima”, conferma Laurent Karila, psichiatra specialista di dipendenze e coautore di “Tous addicts et après?” (Flammarion 2017). Poi c’e’ il consumo stagionale che si e’ riversato in quello professionale. Se in questi ultimi trenta anni il consumo di alcool e’ diminuito nelle aziende, l'alcool rimane la sostanza piu’ consumata in ambito professionale, secondo Renaud Crespin, sociologo al CNRS e co-autore di “Dopparsi per lavorare” (Eres 2017).
Organizzazioni del lavoro e obiettivi insostenibili
Ma il consumo di sostanze psicoattive serve, spesso, a cercare di migliorare la produttivita’. O, piu’ semplicemente, a “tenere”. Nel settore pubblico, agricoltura e pesca, il consumo di alcool o di cannabis permette di “mettersi in modalita’ automatica durante le cose ripetitive” o di “essere in grado di far fronte a condizioni di lavoro fisicamente provanti”, sottolinea Marie Pezé. Nella ristorazione o nella sicurezza, la cocaina, particolarmente presente, permette di “tenere malgrado gli orari pesanti”.
Per la dottoressa in psicologia e psichiatria, questa situazione rimane, essenzialmente, nonostante i cambiamenti delle organizzazioni del lavoro, dove “gli obiettivi insostenibili sono diventati norma”. “Abbiamo visto in questi ultimi anni l’emersione di una cultura manageriale che si riferisce ad un continuo andare oltre se stessi”, spiega facendo rilevare che si tratta di comportamenti che sono ormai acquisiti e che “per non perdere il proprio lavoro, bisogna accettare di perdere la propria salute”.
Dovendo far fronte “ad un carico di lavoro sempre maggiore”, Olivier, quadro superiore di 52 anni, dice di aver cominciato a “prendere della cocaina in ufficio”, lui, che non ne aveva “mai presa durante il lavoro” per piu’ di venticinque anni. E’ per i numerosi cambiamenti nell’organizzazione del proprio lavoro di inviato nel settore assicurativo, che Marie-Pierre, 60 anni, quaranta anni di carriera, si fa avanti per spiegare il suo alcolismo e la sofferenza che ne e’ seguita: “parlo di stress, di obiettivi sempre piu’ ambiziosi, di un management inappropriato, di pressione sinuosa, di orari sempre piu’ flessibili, del mettere in concorrenza gli impiegati, della mia situazione di donna in un ambito maschile...”.
Di fronte a questi cambiamenti, dove l’iperconnettivita’ ha un posto di primo piano, il consumo di sostanze appare come “un obbligo”, “un bisogno”, “una necessita’”, di cui “non se ne puo’ fare a meno”, dicono le persone che hanno risposto. Perche’ “semplicemente non poteva non farlo”, Marion, 30 anni, ha preso per due anni degli ansiolitici, per gestire “la solitudine” e “le giornate di sedici ore” del suo lavoro commerciale in Europa.
Prodotti secondo le ore e i bisogni
Secondo il sociologo Renaud Crespin, le sostanze possono talvolta essere di supporto agli impegni professionali, in occasione di certi periodi particolari in cui si consuma in modo eccessivo del caffe' durante la mattina, poi un po’ di cocaina a fine giornata per "giusto fino a tardi la sera”, prima di fumarsi uno spinello verso le due di mattina e quindi addormentarsi.
Nel suo libro “Steack machine” (Goutte d’or 017), il giornalista Geoffrey Le Guilcher racconta quaranta giorni di lavoro in un mattatoio dove numerosi operai si danno alla birra, al whisky, agli spinelli, ma anche all’LSD o ala cocaina, per far fronte alle sofferenze fisiche e psicologiche.
Alcuni hanno anche fatto ricorso a sostanze “per uccidere la noia del lavoro”, sottolinea Renaud Crespin. “Io sto malvolentieri al mio lavoro”, dice laconicamente Philippe, agente amministrativo a Saint-Leu, a La Réunion, che consuma due o tre spinelli per cominciare la sua giornata di lavoro.
“Sia perche’ il lavoro ti abbruttisce, sia perche’ bisogna abbruttirsi durante il lavoro”, dice Pezé, “l’organizzazione del lavoro non considera il corpo e il benessere del salariato ma solo la sua produttivita’”.
Un tabu’ per le imprese
Come le imprese si fanno carico di questo problema? All’unisono, gli specialisti parlano di “un gran tabu’ in seno alle societa’”, che si mostrano sia preoccupate che imbarazzate in merito. “Alcune imprese chiudono gli occhi, perche’, visto che il lavoro comunque viene svolto, non ci sono problemi”, dice Crespin, perche’ le analisi delle aziende “individuano il problema ponendo la responsabilita’ sul dipendente”.
L’Agenzia nazionale per il miglioramento delle condizioni di lavoro (Anact), che da un anno ha lanciato una sperimentazione in tre regioni della Francia per avere un quadro della situazione delle dipendenze in ambito lavorativo, sostiene che deve esse opportuno “considerare le dipendenze nell’ambito dei miglioramenti delle condizioni di lavoro”.
Secondo l’Agenzia, che lavora insieme alla missione interministeriale della lotta contro le droghe e i comportamenti dipendenti (Mildeca), le imprese devono anch’esse venir fuori “dai giudizi morali e rimuovere tutte le sanzioni per i dipendenti”.
“Bisogna che le imprese riconoscano che i loro impiegati hanno bisogno di queste sostanze per tenere duro”.
In attesa che l’Anact arrivi alle sue conclusioni, a maggio 2018, il governo ha lanciato, lo scorso 27 novembre, sotto l’egida della Midelca, una piattaforma chiamata “Addict’Aide”, per informare i lavoratori dipendenti sui meccanismi della dipendenza.
Dopo aver “rotto il tabu’”, affidando ai propri dirigenti d’azienda i propri problemi di dipendenza, Marie-Pierre ha avuto occasione di dedicarsi al tema delle dipendenze in ambito lavorativo. E rileva che “il lavoro puo’ favorire la dipendenza, ma puo’ anche aiutare a venirne fuori”.

(articolo di Cécile Bouanchaud, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 30/11/2017)
 
 
 
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