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Stupefacenti, detenzione e acquisto: le diverse soluzioni delle normative UE e italiana
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Articolo di Carlo Alberto Zaina
3 gennaio 2013 13:58
 
Ha già formato oggetto di esame il rapporto che, in teoria, dovrebbe governare la materia degli stupefacenti, divisa fra la linea guida fornita dalla decisione UE 2004/757/GAI ed il dpr 10 ottobre 1990 n. 309, fonte di diritto interno.
Se in precedenza lo scrutinio, così, operato, si è incentrato sul dubbio di legittimità (costituzionale) e di conformità (rispetto alla decisione quadro europea), riguardante la scelta del legislatore italiano di applicare il medesimo trattamento sanzionatorio, in relazione alle condotte illecite concernenti qualsiasi sostanza stupefacente, senza – peraltro - operare distinzione tra droghe leggere e droghe pesanti (come, invece, raccomandato dalla normativa europea), le riflessioni che seguono, involgono il tema della soluzione che i diversi piani legislativi, quello sovranazionale e quello nazionale, offrono relativamente alla detenzione ed all’acquisto di stupefacenti.
 
1)
LA DETENZIONE E L’ACQUISTO NEL SISTEMA PREVISTO DALLA DECISIONE 2004/757/GAI
 
A)
IL COMMA 1 DELL’ART. 2
 
L’art. 2 della decisione quadro citata prevede, al comma 1 lett. c), che la detenzione o l’acquisto di sostanze stupefacenti vengano sanzionate (ove di per sé non autorizzate), ove esse risultino essere in nesso di strumentalità rispetto ad una delle attività descritte alla lett. a) del medesimo comma 1[1].
Appare del tutto evidente che la modalità sistematica di possibile inserimento della detenzione o dell’acquisto di stupefacenti nel novero dei comportamenti illeciti, attuata esclusivamente con il disposto della lett. c), si accredita come chiaro esempio di deroga alla valutazione di irrilevanza penale, che caratterizza – pare indubitabilmente - le due condotte in esame.
Il tenore letterale dell’articolo 2, infatti, non pare lasciare dubbi, in ordine al tipo di concezione al quale pare essersi ispirato il legislatore comunitario.
Egli, inequivocabilmente, ha sottoposto la sanzionabilità di queste condotte alla sola condizione dell’esistenza di un nesso eziologico (o finalistico) che vincoli direttamente le condotte in esame ad altre già di per sé illecite[2].
Solo in tale eventualità viene, quindi, declinata la loro illiceità.
Il legame strumentale tra condotte e fine illecito penalmente rilevante pare, quindi, costituire il primo (e probabilmente unico) carattere discretivo, in base al quale la detenzione e l’acquisto possono, talora ed eccezionalmente, venire inseriti nella categoria degli atti penalmente punibili.
A questa tesi appare, poi, di ulteriore supporto, la considerazione che, se il legislatore comunitario avesse qualificato come geneticamente illecite e penalmente rilevanti, sia la detenzione che l’acquisto di sostanze droganti :
1. avrebbe dovuto inserire queste due condotte, già in origine, nella tassativa e dettagliata previsione della lett. a),
2. non avrebbe avuto necessità e possibilità di introdurre il comma 2 dell’art. 2, norma, che esclude dalla sfera di applicabilità tutte le condotte (altrimenti illecite) che risultino riconducibili al consumo personale e sulla quale si avrà modo di soffermarsi infra.
Consegue, quindi, la conclusione che la diversificazione metodologica dell’approccio punitivo alle due specifiche condotte in esame, oggetto di una previsione ad hoc, costituisce ennesimo argomento a riprova di una collocazione usuale delle stesse nella categorie dei comportamenti ritenuti originariamente leciti.
Non è, dunque, casuale che la struttura dell’art. 2 della decisione 2004/757/GAI dimostri di essere fortemente condizionata dal ruolo di centralità che riveste il consumo personale di stupefacenti, quale scopo successivo rispetto alla detenzione ed all’acquisito di sostanze stupefacenti.
Queste due attività possono, talora, risultare sanzionate, se effettivamente connesse ad atti illeciti debitamente descritti, mentre in altre occasioni, vengono assolutamente escluse dal campo della punibilità (e con esse, di seguito, tutte le altre), se espressione di attività di consumo personale.
Il doppio binario sul quale corre la norma europea, esclude la possibilità di equivoci e sovrapposizioni di carattere terminologico, evitando che impropriamente una condotta possa essere inserita in più distinte classi.
La creazione, al comma 1°, di una serie di gruppi autonomi (e distinti) di condotte illecite, costituisce opzione che risponde a criteri di classificazione e qualificazione del livello di antigiuridicità dei singoli comportamenti.
Essa conferma come le due condotte in esame, strutturalmente lecite (o, comunque, non illecite penalmente), possono assumere rilevanza penale solo in presenza di una esplicita condizione, che consiste nella loro propedeuticità a successive condotte illecite.
Muovendo da queste basi, si deve escludere che esistano, nella richiamata norma europea, altre e diverse condizioni che privino dell’originario carattere di non punibilità, le condotte di detenzione e di acquisto, le quali paiono ontologicamente ed esclusivamente concepite in funzione del consumo personale.
  
B)
IL COMMA 2 DELL’ART. 2
 
L’altro apice della norma scrutinata ribadisce il principio che il fine del consumo personale di sostanze stupefacenti (nelle forme previste dalle legislazioni interne) assume un valore di causa di giustificazione rispetto alle condotte valutate come illecite ed indicate al comma 1.
La norma solleva alcuni dubbi metodologici, posto che
1.                     riunisce tout-court nell’ambito di applicazione della esimente anche attività (quali la fabbricazione, l'offerta, la commercializzazione, la distribuzione, la vendita, la consegna a qualsiasi condizione, la mediazione), le quali appaiono all’evidenza incompatibili con l’uso esclusivamente personale,
2.                     rinvia, inoltre, utilizzando una formula (“…consumo personale quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali”), che appare piuttosto equivoca e che non tiene conto di realtà nazionali (ad esempio Grecia, Finlandia e Svezia) che, invece, puniscono anche la detenzione a fine di uso personale,
3.                     si rivolge anche a tutte le attività di coltura di piante da cui ricavare stupefacente, operando, così, una indebita ed illogica omologazione fra oppio, coca e cannabis.
Di contro, un serio tentativo interpretativo permette di sostenere che
1.      le condotte di cui alla lett. a) che effettivamente possono rientrare nella configurazione dell’esimente in parola sono solo quelle, che, effettivamente, possono porsi in connessione finalistica con l’uso personale di stupefacenti (dunque, la spedizione, la spedizione in transito, il trasporto, l'importazione o l'esportazione di stupefacenti)[3],
2.      alle medesime sopra elencate condizioni anche la attività di coltivazione può rientrare nel contesto operativo dell’esimente ed acquisire, così, valore di non illiceità penale.
Si tratta di conclusioni di particolare rilevanza, in quanto le relative conseguenze non vengono circoscritte a mere petizioni di principio, ma sono destinate a produrre effetti, in ordine al sistema sanzionatorio, anche nei sistemi di diritto interno.
  
C)
IL RAPPORTO INSTAURATOSI
FRA LA NORMA COMUNITARIA E LA NORMA ITALIANA.
 
Le produzioni normative nazionali, come notorio, devono informarsi alle direttive europee, attraverso procedure normative di recepimento della fonte di diritto comunitario.
Nel nostro ordinamento è l’art. 117 comma 1° Cost.[4] a governare il procedimento recettivo interno della norma internazionale.
Or bene, nella fattispecie, emerge un rapporto biunivoco fra norma internazionale e norma nazionale.
La prima, infatti, (quale fonte del diritto derivato) sancendo la non punibilità di quelle condotte descritte al comma 1°, solo ove sia dimostrata la loro connessione rispetto all’uso personale di sostanze stupefacenti, stabilisce, pertanto, un principio vincolante per gli ordinamenti statuali.
La seconda, a propria volta, viene, invece, evocata, quale paradigma di riferimento, relativamente al concetto di consumo personale di stupefacenti, cui la normativa europea rinvia espressamente.
Sia consentito manifestare perplessità su questo indirizzo assunto dal legislatore UE.
La scelta di delegare la esatta definizione di “consumo personale” a previsioni del diritto interno, significa optare – di fatto - per un frammentazione del principio contenuto nel comma 2° dell’art. 2, che può nuocere, indubbiamente, sul piano della necessaria omogeneità delle linee guida normative.
In buona sostanza, la decisione europea, invece, di proporsi quale univoca indicazione legislativa, finalizzata a determinare necessari adeguamenti nei singoli diritti nazionali, (attraverso la proposizione di una omogenea espressione del concetto di “consumo personale”) ha preferito limitarsi ad utilizzare ed evocare dati normativi preesistenti localmente.
Non è, però, incauto o peregrino sostenere che la decisione del Consiglio di Europa, attraverso la sua delegazione a norme nazionali, esprima, in realtà, un esempio di riserva di legge in favore dei singoli Stati membri.
Essa si estrinsecherebbe, subordinando, pertanto, alla esistenza eventuale di una previsione normativa di diritto interno, che riconosca la liceità del “consumo personale” di stupefacenti (ed alla sua definizione), così come fornita da ogni ente partecipante, la condizione di applicabilità dell’esimente per le condotte ad essa funzionali.
E’ bene ricordare che nel nostro ordinamento, il principio di riserva di legge, in materia penale, costituisce tipologia che sancisce il divieto di punire una determinata condotta in assenza di una legge preesistente che la configuri come reato (art. 25 comma II Cost.).
La funzione istituzionale della riserva di legge appare, dunque,  orientata in direzione essenzialmente garantistica, avendo, così, inteso la Costituzione evitare abusi da parte dello Stato, nell’esercizio della pretesa punitivo-repressiva verso il cittadino.
L’istituto in parola è ammesso, quindi, quando esso si limita a specificare, dal punto di vista tecnico, elementi già contemplati dalla legge, con un rinvio che si manifesti come recettizio.
Da queste brevissime premesse, pare, dunque, confermato il convincimento che il Consiglio d’Europa – pur nel ribadire il principio che la destinazione dello stupefacente ad un consumo personale costituisca fine che connota di liceità  penale alcune specifiche condotte ad esso collegate o connesse - abbia preferito evitare l’onere di concepire e confezionare una specifica e comune definizione di “consumo personale”, che potesse risultare comune a tutti gli ordinamenti, attraverso l’indicazione dei parametri e dei canoni normativi da seguire procedimentalmente.
Per quanto attiene la condotta detentiva e di acquisto, il nostro legislatore ha, seppur parzialmente (e tramite l’adozione di una norma che introduce e si informa a canoni fattuali che, però, non brillano per determinatezza), recepito l’incipit comunitario.
Nella nuova dizione dell’art. 73 comma 1 bis – concepito a seguito della L. 21 febbraio 2006 n. 49 – si rinvengono, infatti, elementi di stretto contatto con gli indici contenuti nella norma comunitaria.
La lett. a) di tale disposizione, infatti, ha
1.                        attraverso il concetto di “uso esclusivamente personale”, ribadito quella tolleranza penale del consumo di stupefacente, da parte del singolo (ed in maniera giurisprudenzialmente più controversa del gruppo), che era conseguenza del referendum del 1993, che abrogò la dose media giornaliera,
2.                        inserito nella trama normativa, alcuni canoni ermeneutici di carattere fattuale, che - nell’intenzione del legislatore – avrebbero dovuto assolvere al compito di distinguere i casi di destinazione ad uso esclusivamente personale, (in relazione, però solamente a sostanze “detenute, importate od esportate, acquistate o ricevute”), rispetto a quelli di destinazione dello stupefacente a cessione – ancorchè parziale – a terzi.
Al di là della considerazione che taluni dei canoni normativamente adottati (“modalità di presentazione”) paiono gravati sia da vizio di genericità – se non addirittura di indeterminatezza – e che altri, invece, manifestano un palese errore di prospettiva (il cd. peso lordo complessivo della sostanza costituisce, infatti, unità di misura superflua ed errata; esso avrebbe dovuto venire sostituita dal ben più utile e pertinente peso netto, vale a dire dal principio attivo[5]) si deve, comunque, rilevare la istituzionalizzazione, quanto meno, di una limitata liceità (o di una non illiceità penale, a seconda dei punti di vista) dell’uso personale di stupefacenti.
Si deve, infatti, correlare il disposto dell’art. 73 comma 1 bis con quello dell’art. 75 dpr 309/90, in quanto quest’ultima norma è stata concepita come espressione complementare alla prima, nel momento in cui l’uso personale rimane, comunque, un illecito seppure di natura amministrativa. 
 
2)
LA COLTIVAZIONE NEL SISTEMA PREVISTO DALLA DECISIONE 2004/757/GAI
  
Una volta pacificamente acclarata una comunanza di base tra i due livelli normativi, in relazione ad alcune condotte che, escatologicamente, sono connesse con l’uso personale e che quando assolvono a tale rapporto funzionale devono andare esenti da sanzione penale, ci si deve porre il problema della effettiva disapplicazione della decisione 2004/757/GAI, laddove in combinato tra il comma 1 lett. b) ed il comma 2 del citato articolo 2, ammette che anche la coltura di piante dalle quali estrarre sostanza stupefacente, se finalizzata al consumo personale, possa non essere assoggettata a punibilità.
Ritiene chi scrive che al di là della teorica applicabilità del precetto normativo a tutte e tre le forme coltivate, l’unica che veramente possa venire pertinentemente a ricadere nello spettro di applicazione dell’esimente sia, logicamente, solo quella che concerne la coltivazione di cannabis.
E’, infatti, indubbia la possibilità di ricavare da questo specifico tipo di coltura – pur con l’ausilio di strutture rudimentali, o addirittura in assenza di qualsiasi supporto tecnico – un prodotto facilmente fruibile per il proprio uso personale da parte dello stesso coltivatore.
Ciò, a differenza degli oppiacei, che presuppongono, invece, un processo di estrazione, raffinazione e produzione chimica[6], certamente incompatibile con una semplice attività di coltura domestica, pedissequa raccolta del prodotto e suo immediato uso.
Dato conto, quindi, di oggettive differenze fattuali, le quali obbligano ad una distinzione, che porta ad escludere, sul piano logico giuridico la riferibilità ed operatività del combinato disposto dal comma 1 lett. b) e dal comma 2 dell’art. 2, alle colture di oppio e coca, riducendo, pertanto, la potenziale condizione di non punibilità, di cui alla decisione 2004/757/GAI, alla sola coltivazione di cannabis, si deve prendere atto della circostanza che tale indicazione è, comunque, rimasta lettera morta nell’ordinamento italiano.
Allo stato qualsiasi forma di coltivazione, nel nostro ordinamento costituisce reato.
La giurisprudenza di legittimità con la sentenza delle SS.UU. n. 28606 del 10 luglio 2008, ha, infatti, superato la dicotomia che la giurisprudenza di merito (e parte della stessa Corte di Cassazione) aveva – negli anni - elaborato, pervenendo alla distinzione fra coltivazione domestica e coltivazione agraria.
I giudici di legittimità, dunque, pur con una ampia trama motiva, nella citata pronunzia hanno sostenuto una contemporanea pluralità di aspetti, taluni dei quali non sfuggono a serrata critica.
a) La condotta di coltivazione di piante, dalle quali si possano ricavare i principi attivi di sostanze stupefacenti, costituisce un reato di pericolo presunto.
 b) Deriva da tale premessa che l’illecito in questione è caratterizzato dalla “offensività della fattispecie criminosa astratta”.
c) Questa caratterizzazione, peraltro, impone al giudice di “verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva”[7].
d) La coltivazione non sfuggirebbe, pertanto, alla generale disciplina proibizionistica, in quanto costituisce, una delle fonti di produzione delle sostanze, “…indipendentemente dall’accertamento dell’esclusività della destinazione all’uso personale che alle stesse venga data, per l’immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie”.
e) La delimitazione dei confini della liceità giuridica, circoscritta in base al criterio dell’impiego dello stupefacente per il proprio esclusivo bisogno soltanto a quelle determinate forme di condotta che sono menzionate nell’art. 75 dpr 309/1990 (le quali, se connotate dal fine di uso personale della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale) – rivestirebbe, pertanto, carattere tassativo, attesa l’indicazione specifica da parte della norma delle attività potenzialmente esenti.
L’azione di chi, invece, coltiva e fabbrica la droga sarebbe rimasta esclusa, per volontà governativa e parlamentare proprio per evitare un fenomeno di potenziale proliferazione del fenomeno delle droghe.
f) La tesi della equiparabilità della c.d. “coltivazione domestica” alla detenzione per uso personale, sarebbe, quindi, stata disattesa “…poiché le due condotte sono “antologicamente distinte sul piano della stessa materialità” ed è stato affermato che, stante la natura di reato di pericolo del conciato delitto, la coltivazione, intesa in senso ampio, purché idonea alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, si differenzia nettamente dalle condotte colpite da sanzioni di natura amministrativa, indicate nell’art. 75”.
g) Ad avviso della Corte la condotta di coltivazione (punibile lino dal momento di messa a dimora dei semi) “…si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole “anticipazione” della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo”, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti”.
h) Altro aspetto saliente consisterebbe nella considerazione che, a differenza della detenzione, la coltivazione difetterebbe di quel rapporto di immediatezza, in punto alla disponibilità dello stupefacente.
i) Nell’ipotesi, poi, in cui “il coltivato (o parte di esso) sia stato raccolto, la successiva detenzione del prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione, con inammissibile “assorbimento” nella fattispecie amministrativa dell’illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale”.
 
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Ciò non di meno, il pur autorevole intervento del Supremo Collegio non ha, affatto, avere sedato i rilievi critici avanzati da quella parte della giurisprudenza (v. da ultimo la recentissima sentenza 1222 della IV Sezione penale) che ha incentrato, anche sul tema della necessità di verificare concretamente nei singoli casi la reale offensività della condotta coltivativa la propria attenzione.
Al di là delle considerazioni concernenti il principio dell’offensività, la posizione assunta dalle SSUU non ha, però, mai convinto, in quanto le ragioni addotte, per ribadire la punibilità di forme coltivative di piante destinate alla produzione di stupefacenti, anche in casi di conclamata ed in equivoca destinazione del prodotto ottenuto ad uso personale del coltivatore, si sono rivelate più congetturali e di stile, che effettive.
1) Tralasciamo, innanzitutto, l’osservazione concernente il tenore letterale del testo dell’art. 73 comma 1 bis, che avrebbe stabilito con precisione quali condotte possano essere scriminate e quali no, perché esso, per quanto costituente argomento formalmente ineccepibile, in realtà, contraddice il principio sostanziale che la novella del 2006 introduce inconsapevolmente.
E’, infatti, pacifico che non è la singola o specifica condotta, in sé, ad essere esclusa dalla categorie dei comportamenti sanzionabili (recuperando una parvenza di limitata liceità), quanto piuttosto è la comprovata esistenza di una condizione finalistica – l’uso personale - che caratterizza il comportamento sino a rendere quest’ultimo privo del requisito dell’antigiuridicità.
La detenzione dello stupefacente, per potere andare esente da condanna, deve, quindi, necessariamente essere assistita dalla speciale causa di giustificazione della destinazione all’uso personale.
In buona sostanza, l’indagine sulla condotta deve avere esclusivamente ad oggetto l’identificazione dell’effettivo scopo, del movente, che spinge l’agente al gesto.
Ed allora, propria perché – come detto – non è tanto decisiva la condotta nel suo iter, quanto piuttosto lo scopo perseguito (solo, però, se conciliabile con il comportamento), appare del tutto opinabile e non condivisibile la scelta del legislatore del 2006 di ritenere applicabile concretamente la causa esimente solamente a talune condotte e non già ad altre, che, invece, si possono efficacemente coniugare con il consumo personale.
2) Non è affatto esatta l’idea che la coltivazione costituisca necessariamente uno strumento di proliferazione delle sostanze stupefacenti.
Tale considerazione può apparire adeguata, quando attenga a forme coltivative che, felicemente, la giurisprudenza (ante sentenza SSUU 2008), aveva qualificata come “agraria”, per la natura delle tecniche usate, per l’estensione e per le modalità fortemente organizzate della stessa.
Quando, invece, ci si imbatte in una forma di coltura, artigianale, di un numero limitatissimo di piante, svolta su di un balcone, o, comunque, non su aree  destinate a seminativo, non si possono usare le stesse categorie concettuali che vengono, invece, evocate, in ambito di grandi estensioni coltivative.
La differenza fra le due situazioni coltivative descritte è, dunque, evidente e tangibile.
Una ipotesi di depenalizzazione – a precise condizioni – delle forma di coltivazione più rudimentale, più circoscritta quantitativamente e, indubbiamente strumentale ad un uso personale del prodotto ricavato, costituirebbe, pertanto, applicazione ragionevole al diritto, di una consuetudine di fatto.
3) Appare, poi, opinabile e fortemente errata la considerazione che un importante elemento distintivo fra la detenzione e la coltivazione consisterebbe nel fatto che la detenzione postula un rapporto di disponibilità della sostanza drogante di carattere più immediato, in capo all’agente, rispetto alla coltivazione.
Semmai, l’esperienza ci dimostra che è vero proprio l’esatto contrario di quanto affermato.
E’, infatti, pacifico che la disponibilità dell’eventuale prodotto della coltivazione, da parte dell’agente (futuro consumatore), è costante nel tempo e si protrae potenzialmente sin dalla messa a dimora dei semi, proseguendo durante tutta la fase della crescita della pianta, sino alla maturazione eventuale.
Ergo, diversamente da un prodotto stupefacente, che proviene aliunde, (siccome acquistato presso terzi), il frutto della coltivazione, ove comprovatamente destinato ad uso personale, non esce mai dalla sfera di vigilanza e disponibilità del destinatario finale.
4) Stupisce non poco, poi, il grave distacco tra la esperienza quotidiana ed il punto di diritto, di cui i Supremi Giudici appaiono fautori, nel momento in cui essi sostengono che la detenzione del prodottodella coltivazione, ove assolvente a finalità di uso personale, non comporterebbe, peraltro, la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione, in quanto risulterebbe inammissibile l’assorbimento nella fattispecie amministrativa dell’illecito penale, che sarebbe autonomo anche sotto il profilo temporale.
L’affermazione appare coerente con una lettura rigorosamente testuale della norma, ma non può essere condivisa, in quanto decontestualizzata dalla esperienza quotidiana e, quindi, dal diritto vivente.
Un simile orientamento appare, infatti, in primo luogo, del tutto contraddittorio rispetto alla conclamata ratio di prevenzione dell’ ”immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie”, che connoterebbe in radice il T.U.stup. 309/90.
Paradossalmente, infatti, alla luce di siffatto indirizzo, si perviene ad una conclusione che desta notevole inquietudine.
Il soggetto che, infatti, detenga un quantitativo di stupefacente che egli ha precedentemente, acquistato, per un uso strettamente personale, presso uno spacciatore, può essere ritenuto non punibile (nonostante con il proprio comportamento costui abbia, seppur involontariamente, partecipato al sopra definito fenomeno di “dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie” e di finanziamento del relativo mercato illecito); in pari tempo, invece, risulta sanzionabile penalmente la detenzione di stupefacente di una persona che possiede il prodotto che egli stesso abbia coltivato privatamente (operando in una forma che si propone, invece, il dichiarato fine di non alimentare il commercio illecito e di circoscrivere l’azione coltivativa ad un fenomeno privato, privo di valenza diffusiva ab externo).
Sorprende, quindi, che la S.C. non abbia percepito questa intrinseca  ed evidente contraddizione rispetto al substrato ideativo ed etico sul quale il dpr 309/90 si fonda. 
 
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Le osservazioni sin qui svolte dimostrano, quindi, un forte scollamento ed un’altrettanto marcata distonia dei due piani normativi esaminati.
Il diritto italiano è apparso recepire, con la novella del 2006, solo quelle direttive che apparissero funzionali ed armoniche ai propri convincimenti programmatici, ed, invece, ha disatteso tutte quelle di avviso diverso rispetto al proprio orientamento di politica criminale.
Si è, così, dato corso ad un’inammissibile applicazione a macchia di leopardo delle linee guida contenute nella decisione 2004/757/GAI.
La corretta interpretazione del testo normativo europeo deve essere, quindi, impostata nel senso che è ferma e chiara intenzione del legislatore europeo, quella di
1.                      porre come elemento centrale e discriminatorio, per la non punibilità di una azione concernente gli stupefacenti, il fine di consumo personale della sostanza,
2.                      porre le singole condotte in un rapporto di indiscussa subordinazione rispetto al ricordato scopo ultimo, onde inferire, nel caso concreto, da tale equazione la eventuale scriminabilità di ciascuna di esse,
3.                      circoscrivere, negli specifici casi concreti, l’indagine condotta-fine solo a quelle azioni che appaiono logicamente e razionalmente connettibili con l’uso personale.
Alla luce di questi principi, deriva che solo la detenzione, l’acquisto, la spedizione, la spedizione in transito, il trasporto, l'importazione o l'esportazione di stupefacenti [di cui alla lett. a)]e la coltura della pianta della cannabis [di cui alle lett. b)], possono plausibilmente essere “tenute dai loro autori…ai fini del loro consumo personale…”.
Di fatto e concretamente, la norma europea opera quell’equiparazione fra coltivazione e detenzione, che, invece, l’ordinamento italiano ha ricusato con la novella del 2006.
L’art. 73 dpr 309/90, norma principale del sistema di governo della disciplina penale delle sostanze stupefacenti, escludendo la coltivazione di piante, dal contesto dell’operatività della causa scriminante della destinazione ad un uso esclusivamente personale, contenuta dal comma 1 bis, contraddice, infatti, la norma europea di indirizzo generale e la sua riserva di legge.
Il mancato inserimento della coltivazione di piante idonee a produrre derivati della cannabis fra quelle condotte - tassativamente indicate - che possano venire private del loro originario contenuto di offensività, in ossequio all’indicazione normativa europea appare anche atto lesivo il dettato costituzionale agli artt. 3, 24, 25 e 117 Cost. .

Leggi anche:
Stupefacenti. Sulla possibile incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sulla equiparazione fra droghe leggere e pesanti


[1] Le condotte descritte alle lett. a) sono “la produzione, la fabbricazione, l'estrazione, la preparazione, l'offerta, la commercializzazione, la distribuzione, la vendita, la consegna a qualsiasi condizione, la mediazione, la spedizione, la spedizione in transito, il trasporto, l'importazione o l'esportazione di stupefacenti”.
Le condotte descritte alla lett. b) sono “la coltura del papavero da oppio, della pianta di coca o della pianta della cannabis”.
[2] Quali ad esempio la produzione, la commercializzazione, la spedizione e, comunque tutte quellepreviste alla citata lett. a)
[3] La connessione alla destinazione ad uso personale della spedizione, così come della spedizione in transito, trova la giustificazione nel fatto che tale condotta può essere posta in essere dall’agente a favore di sé stesso. Il trasporto, l'importazione o l'esportazione non devono, invece, necessariamente venire associati a fenomeni su larga scala, ben potendo – come d’altronde sostenuto dall’art. 73 comma 1 bis del dpr 309/90 - apparire propedeutici all’uso esclusivamente personale.
[4]Art. 117 comma 1 Cost.
La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.
[5] In proposito è di ausilio e sostegno la decisione di SS.UU. 24 maggio 2012, la quale, pur se in tema di ingente quantità, ha adottato come parametro ponderale il principio attivo, elevandolo a criterio di valore assoluto, con tutte le conseguenze del caso.
[6] L'eroina, derivata per acetilazione della morfina per rendere la molecola più lipofila, fu sintetizzata la prima volta nel 1874 dal ricercatore britannico C.R. Wright
[7] Cfr. www.osservatoriodroga.it/per-la-cassazione-non-e-reato-coltivare-cannabis-acerba/

 
 
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